Nuova vittoria in giudizio per le donne lavoratrici
in sinergia con la Consigliera di Parità
Il Tribunale di Milano ha ritenuto doppiamente discriminatorio il licenziamento collettivo del personale femminile di un’azienda e ha ordinato la reintegrazione nel posto di lavoro delle ricorrenti che non hanno accettato la conciliazione della controversia.
La sentenza del Tribunale di Milano N. 3153/23 pubblicata il 3/10/23 con motivazioni pubblicate il 27.11.23 riguarda una azione giudiziaria di impugnativa di licenziamento collettivo ritenuto discriminatorio per genere nel settore della logistica.
La Consigliera di Parità di Regione Lombardia è intervenuta in giudizio a sostegno dell’impugnativa promossa da sei lavoratrici licenziate all’esito di una procedura di licenziamento collettivo avviata da una società che svolge attività di movimentazione merci/magazzino, dopo un tentativo di conciliazione informale che non ha sortito esito favorevole.
L’antefatto: la società, a seguito dell’affermata contrazione negli ordini e nel fatturato per il fallimento di un cliente, aveva avviato la procedura di licenziamento collettivo per 9 risorse in esubero fra gli addetti al magazzino (in totale 22 persone di cui 12 donne –pari al 54,55%), tutte con inquadramento al 4° livello e mansioni di operaio/a per mansioni multiple di magazzino.
Sostenendo di non aver più necessità di addetti al “picking” (movimentazione manuale) ma solo di carrellisti, la società aveva attribuito un valore molto elevato, fra i criteri di scelta, a chi svolgeva mansioni di addetto ai carrelli elevatori e un valore pari a zero a chi svolgeva la movimentazione manuale delle merci. Sulla base dei punteggi finali della procedura, le persone licenziate erano quindi risultate 7 sui 9 esuberi dichiarati, tutte donne (l’ottava in malattia e la nona dimissionaria).
Sei lavoratrici sulle sette licenziate hanno promosso, con unico legale, l’azione giudiziaria, e in corso di giudizio quattro di loro hanno accettato un accordo conciliativo di tipo economico con la società, con la conseguenza che la causa è proseguita per le ulteriori due ricorrenti, giungendo a sentenza.
La Consigliera, intervenuta con proprio legale, ha sottolineato, come dedotto anche dalla difesa delle ricorrenti, la violazione della norma (art. 5 comma 2 L.223/91) che impone al datore di lavoro di non collocare in mobilità una percentuale di manodopera femminile superiore a quella occupata, dato che prima della procedura le donne addette al magazzino erano il 54,55% del totale, e all’esito della procedura le donne hanno costituito il 100% del personale licenziato. Inoltre, ha evidenziato che la loro espulsione costituiva l’approdo finale di una condotta discriminatoria messa in atto prima dell’avvio della procedura, e più precisamente nel momento della formazione e dell’aggiornamento professionale.
Le lavoratrici avevano infatti allegato di non essere mai state formate all’uso dei carrelli elevatori, a differenza dei colleghi maschi, con la conseguenza che le mansioni cui erano state adibite (quelle di addette al picking) erano diventate obsolete, aprendo la strada al loro licenziamento.
Per un completo esame della questione, la Consigliera ha prodotto in giudizio il rapporto periodico della società sulla situazione del personale maschile e femminile del biennio 2020-2021 ex art. 46 D.lgs. 198/2006, dal quale emergeva che solo 5 donne - su un totale di 33 persone - sarebbero state destinatarie di iniziative per la formazione, e solo 32 ore - su un totale di 113 - sarebbe stata erogata a personale femminile; e che anche l’adibizione del solo personale femminile alle inferiori mansioni di guardiania e pulizia avrebbe rappresentato ulteriore manifestazione del comportamento discriminatorio, anche ai sensi dell’art. 25, comma 2bis D.lgs. 198/2006 (come sostituito dall’art. 2, comma 1 lett. c della L. 161/2021), poi culminato nel licenziamento.
Il Tribunale ha accolto il ricorso, accertando “la diretta correlazione tra una discriminazione in punto di formazione e il conseguente trattamento discriminatorio al momento del licenziamento”.
Avendo verificato che la formazione per la conduzione dei carrelli semoventi era stata riservata a tutti i dipendenti di sesso maschile (100%) e ad una sola dipendente di sesso femminile (8,33%), il Tribunale ha ritenuto accertata la disparità di trattamento nell’accesso alla formazione, riconoscendo che la scelta di escludere quasi interamente la forza lavoro femminile dalla formazione si era tradotta in una evidente discriminazione diretta, in violazione del divieto di discriminazioni basate sul genere in materia di formazione di cui all’art. 27, comma 3, del D.lgs. n.198/2006.
Il Tribunale ha ricordato che il primo tassello posto a presidio di una effettiva tutela del lavoro “in tutte le sue forme” sancito dall’art. 35 della Costituzione deve ritenersi proprio la formazione, da individuarsi quale punto di partenza per consentire l’elevazione professionale e sociale dei lavoratori e per garantire loro il diritto “ad una retribuzione proporzionata e sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa” (come recita l’art. 36 Cost.). E ha proseguito affermando: “Dalla lettura congiunta di tali disposizioni, può concludersi che la formazione sia fondamentale elemento per consentire la crescita e lo sviluppo non solo professionale dei lavoratori, condizionando in maniera evidente le prospettive di carriera, le relazioni interpersonali e la crescita personale all’interno della società. Deve, poi, evidenziarsi come l’accesso alla formazione in condizioni di parità rappresenti anche un primario elemento per scongiurare la realizzazione, a cascata, di ulteriori trattamenti discriminatori riscontrabili, ex post, in punto di trattamenti retributivi, progressione di carriera, attribuzione di incarichi apicali e, infine, in materia di licenziamento. È del tutto evidente che l’esclusione di taluni soggetti, portatori di un fattore di rischio, dalle iniziative in materia di formazione, volte a consentire la crescita professionale, determini una inevitabile disparità di trattamento con effetti anche a lungo termine.”
Il Tribunale ha quindi sottolineato che, dopo aver limitato la formazione per la conduzione dei carrelli alla forza lavoro maschile, la società ha attribuito proprio al possesso di tale requisito il punteggio di gran lunga più elevato per l’individuazione delle risorse da porre in mobilità (60 punti, pari al triplo del punteggio per carichi di famiglia), determinando un’ulteriore perimetrazione dell’ambito della procedura (“addetti al picking”) rispetto a quanto dichiarato nella comunicazione di cui all’art. 4 comma 3 L. 223/91, in cui si faceva riferimento a tutti gli “addetti al magazzino” di 4° livello, le cui mansioni dovevano ritenersi fungibili.
Con riferimento alla mancata formazione della forza lavoro femminile, il Tribunale ha quindi accertato la sussistenza di una discriminazione diretta visto che le dipendenti avevano subìto un “trattamento meno favorevole rispetto a quello riservato a tutti lavoratori di sesso maschile, a parità di mansioni e inquadramento”.
Inoltre, l’ulteriore perimetrazione dell’ambito della procedura di licenziamento collettivo fra carrellisti e addetti al picking e l’attribuzione di un peso decisivo al possesso del patentino di carrellista ha comportato l’accertamento di una discriminazione indiretta in sede di licenziamento, perché il criterio neutro del possesso del patentino di carrellista, dopo che alle donne non era stata erogata la formazione necessaria per ottenerlo, ha messo le lavoratrici in una posizione di particolare svantaggio rispetto ai colleghi, tanto da comportarne l’espulsione all’esito della procedura di mobilità.
Il Tribunale ha pertanto accertato la natura discriminatoria del licenziamento intimato alle ricorrenti ordinando la loro reintegrazione in servizio e il pagamento di una indennità risarcitoria parametrata all’ultima retribuzione valida per il calcolo del TFR dal momento del licenziamento alla reintegrazione, con condanna della società alla rifusione delle spese legali sia delle ricorrenti che della Consigliera di Parità.
Le Consigliere di Parità esprimono soddisfazione per il riconoscimento, da parte del Tribunale, delle difese esplicate in giudizio con il proprio intervento, e per la conclusione positiva della vicenda per le lavoratrici, ciascuna garantita nel diritto di scegliere per sé tra una soluzione economica e la reintegra nel proprio posto di lavoro. Auspicano infine che la decisione, così ben formulata e chiara nei principi affermati, possa costituire un precedente per altre situazioni analoghe, ma anche per un comportamento non più discriminatorio dell’azienda in questione sotto il profilo della parità di genere nella futura formazione del personale.
Come ci testimoniano molte illustri personalità, sia accademiche che imprenditoriali, le donne devono e possono svolgere ogni tipologia di lavoro, e non c’è quindi ragione per cui una donna non possa essere accedere alla formazione per l’attività di carrellista, così da poter conseguirne il “patentino”, al pari dei colleghi.
Continueremo a vigilare anche attraverso l’analisi dei Rapporti biennali che questi principi siano attuati.
Le Consigliere di Parità
Anna Maria Gandolfi e Valeria Gerla